5 consigli pratici per il nuovo giornale online di Enrico Mentana
Fondare una nuova testata online, in Italia poi, sembra l’impresa più rischiosa possibile. Meglio allora condividere tutte le informazioni possibili prima di mettersi all'opera
Ormai lo sapete: Enrico Mentana aprirà presto un suo giornale online. Lo ha annunciato qualche tempo fa direttamente dalla sua pagina Facebook dove a stretto giro ha anche iniziato a raccogliere i CV degli aspiranti giornalisti che ne formeranno la redazione. Sarà un giornale fatto da giovani con un’impostazione no-profit: tutti gli eventuali introiti saranno reinvestiti nel progetto. Se ci saranno perdite lo stesso Mentana penserà a coprirle.
Sulle specifiche editoriali si sa ancora poco. Mentana dice che sarà “pensato per il cellulare” e da qualche giorno si conosce anche il primo nome dei neo assunti: David Puente, ex dipendente Casaleggio Associati, ora convertito a debunker di bufale online.
Vista la mancanza di ulteriori dettagli, l’ambizione del progetto e la sua particolarità generale (una rivista online? Oggi? No profit? Con quale modello di business?) l’impressione è che i punti in sospeso che Mentana dovrà affrontare nelle prossime settimane siano ancora molti.
Dato che in Italia siamo tutti allenatori della nazionale di calcio ma anche un po’ tutti direttori di giornale ho pensato potesse essere divertente mettersi nei panni di chi si trova a dover varare un progetto del genere mettendo in fila qualche riflessione sull'argomento con l’ardire di dare qualche consiglio ad un professionista di lunga data come Mentana che, pur avendo toccato le massime vette di questa professione, si cimenta coraggiosamente per la prima volta con un progetto completamente digitale.
Se qualche tempo fa già Gaia Berruto su Wired Italia si era pubblicamente posta “Qualche domanda sul progetto editoriale di Enrico Mentana” proviamo adesso a fare un passo avanti proponendo possibile soluzioni alle problematiche che rimangono aperte.
1) Non assumere (solo) giornalisti. Può sembrare brutto scriverlo in un momento di crisi della professione oltre che di fake news come questo ma la verità è che oggi un progetto editoriale digitale per potersi definire moderno è solo parzialmente costruito sulla professionalità di una redazione prettamente giornalistica. Avere una piattaforma tecnologica in continua evoluzione (sviluppatori) come un team in grado di produrre velocemente contenuti multimediali e social (grafici e videomaker) oltre che una profonda competenza nella raccolta e analisi dei dati (come della conseguente vendita pubblicitaria) sono tutti campi d’azione altrettanto fondamentali e non necessariamente subordinati al contenuto editoriale stesso della rivista.
La stessa classica definizione di giornalista vacilla sotto accelerazione di questi anni: bisogna chiederci se stiamo ancora parlando di persone iscritte all'albo dei professionisti o piuttosto di qualcuno con una profonda conoscenza di CMS editoriali, del linguaggio e dell’estetica del web oltre che padrone degli strumenti tecnologici che lo mettono in grado di lavorare e trasmettere da qualunque luogo in qualunque momento.
2) Cosa vuol dire mobile? Tra i pochi punti fermi di questo nuovo giornale c’è quello che sarà “fatto apposta per i cellulari”. Non si poteva dire cosa più giusta: ormai più del 50% (con punte per qualcuno che sfiorano l’80%) di chi legge news online lo fa da un dispositivo mobile ed è giusto avere in mente esclusivamente quella come piattaforma nativa di ogni contenuto digitale. Capire esattamente cosa questo comporti è invece molto più complicato. Creare un sito “responsive” (in grado di adattarsi a schermi di qualunque dimensione) è infatti solo il primo passo per lo sviluppo di un prodotto editoriale che possa dirsi davvero “mobile first”. La grande variabile di un’impresa del genere è infatti nella forma stessa dello schermo in cui leggeremo e guarderemo questi contenuti. La struttura verticale dei nostri smartphone porta ad una vera e propria mutazione genetica della parola scritta, e ancor di più, dell’immagine fissa e in movimento. “Fatto per i cellulari” vuol dire dunque puntare con forza su contenuti “arricchiti” come il bellissimo recente speciale del NYT sul crollo del ponte Morandi in cui lo scrolling verso il basso è esso stesso parte integrante dell’esperienza di lettura? Difficile dato che si tratta di produzioni molto complesse che necessitano di uno sforzo produttivo e di un know-how non immediatamente disponibile ad una redazione.
La rivista online americana The Outline ha sperimentato molto negli ultimi mesi su questo versante: i suoi articoli si sfogliano infatti con un meccanismo di “swipe” tipico delle piattaforme mobile e anche il colorato impianto grafico del progetto segue l’estetica di social network come Snapchat e Instagram. Ancora più interessante è il tentativo di The Outline di lavorare su i formati pubblicitari creando dei branded content editoriali con un vero valore aggiunto per il lettore capaci di integrarsi perfettamente con il resto degli articoli presenti nel sito. Esperimento riuscito? Forse no se anche loro sono alle prese con una serie di pesanti tagli redazionali, forse dovuti alla crisi del modello di business forse alla necessità di modificarlo puntando sempre più su contenuti extra-giornalistici.
3) Tra un mecenate e un crowdfunding meglio un Venture Capitalist. Al momento dell’annuncio del progetto Mentana ha dichiarato: “Se per motivi loro ci saranno aziende o mecenati in grado di aiutare senza nulla pretendere saranno benvenuti” […] “Speriamo ci sia abbastanza pubblicità, altrimenti ci sono crowdfunding e donazioni. Dio ci guardi dalle sovvenzioni”.
Se tradizionalmente il mecenate è colui che investe le proprie risorse personali finanziando artisti e uomini di cultura il “capitalista di ventura” fa qualcosa di profondamente diverso. Se per il mecenate l’obiettivo è quello di sostenere economicamente, anche a fondo perduto, la creazione di un’opera intellettuale, poetica o artistica nel caso dell’investitore di ventura l’obiettivo rimane sempre quello dell’impresa economica. Qui la speranza è infatti quella di avere un risultato profittevole pur se nella lunga durata restituendo nella migliore delle ipotesi la somma iniziale moltiplicata migliaia di volte. Proprio per raggiungere questo obiettivo il focus è spesso spostato sul coefficiente d’innovazione dell’impresa che pone le basi per una possibile buona riuscita di quella che auspicabilmente deve essere un’avventura sostenibile, se non addirittura profittevole.
Eppure parlando con chi in Italia si occupa di questo tipo di investimenti tecnologici ad alto rischio “la possibilità di fare media nel nostro paese (così come all'estero) difficilmente sembra un buon investimento”. L’impossibilità di creare una testata online popolare e al tempo stesso economicamente vantaggiosa è dovuta principalmente all'attuale modello pubblicitario, ancora fondato su banner e inserzioni sostanzialmente tradizionali. Lo scatto in avanti avverrebbe solo superando questo schema per qualcosa di paradigmaticamente diverso. Per un investitore meglio allora sperare in un nuovo Facebook, qualcuno insomma che sia fuori dal sistema industriale ma perfettamente dentro quello tecnologico. Un po’ il contrario dell’attuale situazione di Enrico Mentana insomma.
Per quanto riguarda il “crowdfunding” invece di solito si decide di procedere su questa strada per la realizzazione di un prodotto fisico o di qualcosa con una sua unicità temporale. Un nuovo gadget tecnologico, un progetto artistico, un film o il pilota di qualcosa che poi verrà prodotto in serie. Con “crowdfunding” si intende infatti un processo di raccolta fondi attraverso una piattaforma tecnologica terza in cambio di una serie di ricompense graduali a seconda della somma che l’utente decide di versare. Difficile pensare ad un giornale online costretto a periodici crowdfunding per sostenere la propria attività. Oltre al suo aspetto tecnologico il crowfunding ha anche un elemento “narrativo” che poco si adatta alla storia di un progetto del genere. Inventori, artisti e imprenditori che ricorrono a questa modalità di finanziamento spesso incentrano l’appello legato alla propria raccolta fondi su una narrazione basata sulla necessità di un aiuto “alternativo”. Secondo questo schema l’industria “ufficiale” gli ha precedentemente sbarrato le porte valutando negativamente la bontà della loro idea che ora viene finalmente sottoposta ad una giuria popolare.
Difficile immaginare una narrazione del genere, efficace però per coinvolgere emotivamente i futuri finanziatori, applicata ad un direttore come Mentana che dall'alto della propria posizione può facilmente far recepire le proprie idee a professionisti, editori e finanziatori di ogni genere.
4) Prima i soldi poi le rime. Veniamo alla questione più spinosa: qual è il modello di business di questo nuovo progetto online? Al momento Mentana non ne ha parlato chiaramente. Le alternative sono molte, pure troppe, proprio perché nessuno (a parte pochissime virtuose eccezioni difficilmente ripetibili tipo il NYT) ha trovato una soluzione convincente a questo tema.
Un nuovo webmagazine come l’americano Axios per esempio ha deciso di puntare tutto sulle newsletter: un servizio di altissima qualità e in continua espansione anche a pagamento per uno zoccolo duro di utenti disposto ad abbonarsi per ricevere informazioni precise e tempestive relative a temi specifici. Anche se il servizio in abbonamento deve essere ancora lanciato Axios ha raccolto 10 milioni di dollari nei suoi primi 7 mesi di vita con inserzioni sponsorizzate nelle sue newsletter. Va però ricordata la dimensione del progetto dato che la redazione ammonta già a più di 150 dipendenti.
In Italia un progetto totalmente social come Freeda punta esclusivamente sul branded content privandosi addirittura di un sito proprietario e distribuendo i suoi contenuti liberamente su Facebook e Instagram con l’obiettivo di raggiungere più persone possibili. Un po’ una versione aggiornata e tecnologica dei free press di un tempo: più occhi guardano più soldi si fanno. Anche se i risultati numerici sono stati fino a questo momento impressionanti (tra cui 1,5 milioni di fan su Fb con un enorme coinvolgimento degli utenti) il suo ultimo bilancio segna un rosso da più di 1 milione di euro. Intanto il brand si espande all'estero, uno dei pochi casi editoriali nazionali capaci di arrivare oltre il confine, e forse pensa anche a creare una sua linea di gadget e abbigliamento.
Altri periodici come Wired Italia ha creato un ecosistema spalmando i propri sforzi in più direzioni: sito online, rivista cartacea e eventi live che nel complesso contribuiscono al conto economico dell’impresa.
Corriere e Repubblica anche se in modo diverso stanno timidamente provando a sperimentare con diverse formule di paywall (Corriere con un limite di articoli free, Repubblica riservando i contenuti premium a chi paga) ma il grande dubbio è convincere i lettori italiani a pagare dopo averli abituati ad avere questo tipo di informazione generalista in modo gratuito.
Questa carrellata solo per dire che nessuna di queste opzioni è priva di fondamento né nessuna garantisce un successo. Molto dipende dal tipo di target che si ha in mente per il proprio giornale e soprattutto dalla capacità di produrre e vendere un contenuto piuttosto che un altro. L’importante è praticare un esercizio di ingegneria inversa partendo dunque da un business model e solo in seguito disegnarci attorno un progetto editoriale.
Se al tempo dell’abbondanza anche i programmi televisivi venivano creati a partire da un’idea di format che poi sarebbe stata venduta ad un cliente oggi che viviamo nella scarsità sono invece i brand a presentare prima le proprie istanze a cui si va incontro con contenuti su misura.
5) Fare chiarezza su i dati. Dal doloroso confronto con le piattaforme tecnologiche i grandi editori hanno però imparato una lezione sull'importanza della raccolta dati. Se da una parte si discute molto dell’abuso che i vari Facebook e Google fanno di ciò che carpiscono dagli utenti (Cambridge Analytica docet) dall’altro persino le testate in prima linea sulle tematiche legate alla privacy e alla trasparenza hanno capito che è fondamentale profilare i propri lettori per una vendita pubblicitaria più mirata e di qualità, oltre che per l’attivazione di possibili iniziative extra editoriali. Lo ha affermato candidamente il The Guardian che dopo aver sanato un debito che pareva irrecuperabile si avvia al pareggio dei conti anche grazie alla capacità di raccogliere informazioni dalla propria enorme massa di utenti. Così come siamo ben contenti di concedere qualcosa per l’utilizzo gratuito di Facebook così facciamo la stessa cosa per la possibilità di continuare ad usufruire dell’informazione di qualità e gratuita dell’editore inglese.
Proprio quella del Guardian è una storia particolarmente interessante per chi cerca la luce in fondo al tunnel della sostenibilità economica online. La società ha visto per la prima volta nel 2018 i profitti del digitale sorpassare quelli prodotti dalla versione cartacea e dagli eventi (108.6 milioni di sterline contro 107.5). Questo dopo aver diminuito le perdite (da 57 milioni di sterline a 19 in due anni) anche grazie ad una serie di esuberi che hanno tagliato i costi del lavoro di 10 milioni di sterline l’anno. Oggi buona parte dei guadagni del sito web è dato proprio dalle donazioni volontarie dei lettori. 570,000 sono quelli che mettono mano al portafogli regolarmente e più di 375,00 chi lo fa saltuariamente. Il tutto senza aver dovuto istituire un paywall draconiano ma semplicemente continuando il proprio lavoro giornalistico e aggiungendo un disclaimer al fondo di ogni articolo in un apposito box che inizia così: “abbiamo un piccolo favore da chiederti…”.
P.S. proprio mentre scrivevo questo articolo mi sono imbattuto in un’altra “lettera aperta a Mentana” firmata da Mario Tedeschini-Lalli, interessante lettura più incentrata sulla struttura interna di una redazione digital.