Cosa può imparare il giornalismo italiano dalla trap

Perché quello che succede alla musica capita poi anche a tutti gli altri

Andrea Girolami
13 min readSep 29, 2019

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Un passo indietro
Il sommario l’ho rubato ad una conferenza tenuta qualche anno fa da Bruce Sterling in cui il giornalista e scrittore di fantascienza spiega quello che molti tra i navigatori di lunga data sanno già bene. Si dice spesso che i principali “driver” di innovazione siano due: il porno e la musica. Qui la tecnologia ha colpito più duramente e più in fretta che altrove dimostrando quali e quanti cambiamenti è necessario apportare ad un sistema perché questo possa continuare ad esistere. Solo da qualche anno l’industria musicale mondiale è tornata in attivo dopo quasi un decennio di disastro economico e senza minimamente toccare nuovamente le vette di profitto degli anni ’90. Un percorso lungo e doloroso, una via crucis di file sharing, denunce, cause millionarie, iTunes, MP3 protetti da DRM. Poi finalmente è arrivato un nuovo equilibrio economico: a guidare il mercato è lo streaming.

Non solo la musica è tornata in attivo ma l’intera industria ha trovato una nuova verginità come accade solo a chi rinasce dalle proprie ceneri. Nel mondo e, una volta tanto anche in Italia, è soprattutto la musica urban (rap, hip hop, trap, annessi e connessi) a tirare la carretta dello streaming e del business in generale. Sono gli artisti vicini a questi generi quelli più cercati e che accumulano più visualizzazioni su YouTube o che riescono a penetrare più profondamente nell'immaginario collettivo.

Sono partito da lontano perché, davanti ad una storia della rete ormai ventennale, molte altre industrie, vedi ad esempio quella delle news, sembrano evitare finché possibile il confronto con le esperienze altrui. “Quello che è successo a loro non succederà mai a noi” si dice nelle redazioni dei giornali (senza fare ormai nessuna distinzione tra cartaceo e digitale) ma ovviamente non è così. Purtroppo o per fortuna una volta che il genio del file sharing e dei social network è uscito dalla lampada non c’è modo di riportarlo dentro e tutte le piattaforme di più grande successo degli ultimi anni (da Netflix a Spotify) dimostrano che l’unico modo di contrastare la pirateria è offrire un servizio alternativo e legale che sia più efficiente, comodo e ad un prezzo abbordabile.

Due in avanti
In Italia la parola trap viene spesso associata all’idea di bambocci cretini con tatuaggi in faccia che vivono in casa con la mamma. Niente di più sbagliato. Però è comprensibile che i media mainstream adottino questo stereotipo. Per certi versi, la loro è una tattica difensiva da opporre a un fenomeno che non comprendono e che non riescono ad assimilare, un rifiuto che affonda le radici nella lotta tra due comparti industriali (entertainment e news) che viaggiano da tempo su binari diversi. Mentre uno è tornato a prosperare, l’altro non se la passa di certo bene.

Il consiglio allora, anche se a molti potrebbe sembrare una provocazione, è quello di fare un bagno di umiltà e capire invece cosa questi 20enni, che sono spesso contemporaneamente artisti, imprenditori e direttori artistici, hanno da insegnare alle redazioni e ai produttori di contenuti nazionali. Come riescono a regalare il proprio prodotto riuscendo comunque a fare soldi? Come fanno a moltiplicarsi anche quando la competizione è così agguerrita? Perché vedono nei social network uno strumento da utilizzare invece che un nemico da contrastare?

I social network sono morti. Viva i social network
Interessante e rivelatore di come le cose funzionano online oggi è quello che ho visto fare recentemente a Ghali. Esce il suo nuovo video e il copy della foto pubblicata su Facebook per comunicare la notizia recita solo “Il video è su YouTube”. Niente link, neanche nel primo commento, come fino a poco tempo fa facevano lui e molti suoi colleghi. La triste verità è che i social network non vanno più percepiti come un metodo di produrre traffico ma al massimo come un luogo di promozione, di “awareness” nei confronti del proprio pubblico. La chiave per Ghali è quella di produrre volume di ricerca, avere centinaia di migliaia di ragazzi che contemporaneamente su Google digitano le parole chiave “Nuovo video Ghali”. Creare un passaparola che si possa diffondere liberamente online, che si moltiplichi senza la necessità di essere incanalato in un link o rimanere costretto in una piattaforma. L’obiettivo, detto in altri termini, è far diventare il proprio contenuto la “notizia del giorno”, permettergli di scalare la piramide dell’attenzione arrivando ad entrare nei trend di Google, e infine renderlo intercettabile dalle redazioni tradizionali che ne scriveranno nei loro siti, alimentando il circolo di conseguenza. Gli artisti della trap, così come gli influencer, hanno da tempo abbracciato questa logica, che peraltro è la logica-base di Instagram: qui, se portare un utente altrove è estremamente difficile (swipe up per chi ha più di 10k follower e link in bio, non c’è altro modo), è invece molto semplice coinvolgerlo nel proprio universo, ricevendo un un engagement molto più grande che su Facebook.

Se volete approfondire il concetto della “morte” dei Social Network come veicolo di traffico vi consiglio di ascoltare questa breve presentazione di Alessandro Mininno di Gummy Industries sulla “morte del piano editoriale” e anche se il suo discorso è incentrato sull'attività di brand e aziende c’è da molto da imparare anche per chi lavora nel campo delle news che proprio su un ampio piano editoriale di questo genere fonda la spina dorsale della propria attività.

A cosa servono (davvero) i video
Parliamoci chiaro: i video sono una cosa rischiosa. Prima di tutto per il loro costo: fare un buon video non è quasi mai economico, neppure quando si tratta di un prodotto mordi e fuggi per i social, soprattutto visto che la pietra di paragone di molte redazioni sono articoli pagati 15 euro lordi l’uno. Eppure i video vanno fatti, perché sono i contenuti più diffusi nei social network, perché online la nostra abitudine è sempre più quella di guardare piuttosto che leggere, perché un video può mostrare quello che un articolo composto di sole parole non potrà mai. Come maneggiare allora un materiale così potenzialmente esplosivo senza farsi male? Ancora una volta il mondo della trap ci viene in aiuto con qualche suggerimento.

Vi siete mai chiesti come mai i musicisti (tutti i musicisti, non solo nel mond del rap) continuino incessantemente a pubblicare videoclip anche se nessun canale televisivo li trasmette più da un pezzo? Si è parlato del videoclip come di un formato morto, non più al passo delle nuove piattaforme. Eppure oggi se ne producono più che in passato. Succede perché i videoclip aiutano a suonare dal vivo e i concerti sono una delle principali fonti di guadagno di chi fa musica oggi. Inoltre oggi girare un video costa molto meno che in passato. Per una questione tecnologica ma anche estetica: per fare un buon video non sono più necessarie coreografie, effetti speciali e fuochi d’artificio, basta un’idea, una trovata originale, un taglio capace di uscire dal rumore di fondo. Ecco quindi come la musica ha perfettamente compreso come si può investire in un canale, anche se difficile e impegnativo, solo ed esclusivamente per continuare a far parlare di sé raccontando un proprio immaginario nella migliore delle maniere, in modo tale che il nome di un artista sia sulla punta della lingua di chi comprerà il biglietto del concerto, ambito su cui ancora si può avere un reale margine di guadagno.

Ora portiamo la stessa riflessione nell'ambito editoriale e chiediamoci: perché un sito di notizie dovrebbe produrre un video? La prima risposta è la stessa che potrebbe dare un discografico: “per rimanere rilevanti”, fare in modo che il nome della nostra testata, del nostro brand, sia il primo a cui si pensa cercando una determinata notizia nei motori di ricerca, e infine per far sì che a parità di risultato sulla prima pagina di Google l’utente scelga di cliccare nel nostro sito perché siamo gli autori di “quell'altro video, quello del giorno prima” che lo aveva appassionato/emozionato/indignato. I video, dunque come strumenti di marketing, e quando parlo di video non intendo spot o campagne ma veri e propri contenuti, documentari e approfondimenti. Dobbiamo ricordarci che la rete è profondamente diversa dalla tv e nessuno vuole vedere lo spot di qualcosa senza che questo contenga anche un contenuto interessante. Su internet non siamo obbligati a seguire un flusso ma cerchiamo solo ciò che riesce a mantenere alta la nostra attenzione. Brand come Red Bull, o più recentemente, Pornhub lo hanno capito alla perfezione.

Il formato video è poi la scelta migliore come veicolo di coinvolgimento in vista di operazioni diverse. Così come gli artisti trap hanno i loro tour anche gli editori hanno i loro “concerti”. Da La Repubblica delle Idee a Il Tempo delle Donne al Wired Next Fest e Vanity Fair Stories si cerca di creare profitto in maniere sempre nuove e diverse. Coinvolgere un pubblico per un proprio evento è profondamente differente dall’informarlo correttamente. Non è detto che chi ci legge tutti i giorni o chi apprezza il nostro giornalismo decida di uscire di casa e entrare fisicamente nel nostro mondo. Per questo, il mezzo video è perfetto: comunica in brevissimo tempo un sistema di valori complessi, dimostrala tridimensionalità del lavoro delle redazioni oltre che offrire un’anteprima di ciò che l’utente o l’interessato troverà fisicamente una volta che deciderà di partecipare alla festa. In sostanza c’è da imparare dai musicisti trap non solo perché usano “la macchina” molto meglio e più sveltamente di qualunque redazione giornalistica ma anche perché proprio nel momento in cui gli editori decidono di muoversi nel terreno degli eventi dal vivo e diventare quindi “promoter” entrano in diretta concorrenza con i performer di cui sopra. Stasera live a Milano Ferruccio de Bortoli e, dall’altro lato della città, Gemitaiz. Tu da che parte stai?

C’è poi un altro ambito per cui il formato video è particolarmente adatto ed è quello dei branded content, un settore in cui l’editoria tradizionale italiana, vuoi per mancanza di mezzi, vuoi di know how, è ancora molto timida. Il video permette di creare un contenuto più d’impatto, più coinvolgente e più facilmente in grado di soddisfare il cliente e amalgamarsi al flusso di contenuti editoriali. Semplificando: essendo il video in sé un contenuto pregiato, può rendere la pillola pubblicitaria più dolce da ingoiare per l’utente finale. In fondo se un contenuto è di valore e il placement è trasparente a chi importa davvero se è sponsorizzato o meno? Anche in questo settore il mondo della musica urban e della trap ha qualcosa da insegnarci. Interessante, per esempio, il progetto Basement Cafè in cui personaggi del mondo rap e della cultura si trovano a discutere partendo da alcuni frammenti cinematografici. Se il pretesto cinefilo sembra un po’ tirato per i capelli, la produzione para-televisiva consegna un prodotto solido dal punto vista visivo e con diverse intuizioni editoriali, tra cui un divertente confronto tra Enrico Mentana e Mahamood. Davanti a contenuti come questi, non è forse troppo disturbante accorgersi (se ce ne accorgiamo) che il tutto è pagato da Lavazza.

Gioco di squadra
Questo concetto vale doppio perché va applicato sia internamente che esternamente. Da una parte le redazioni editoriali dovrebbero accettare il fatto che, per mettere in piedi un progetto funzionante, non basta più soltanto avere una squadra di giornalisti. Il paragone con la musica aiuta di nuovo a capire meglio la questione. Lo spiega Antonio Dikele, conduttore e scrittore appassionato del genere, che in questo video elenca le persone necessarie per il lancio di un artista nella scena rap italiana. Un manager, innanzitutto, che “pensi in modo diverso” dall’artista e che sia capace di relazionarsi col mondo esterno (rete, sponsor, fan) e consigliarlo. Un grafico in grado di distinguerlo dagli altri. Infine un team video e social pronto e veloce che possa tradurre l’immaginario dell’artista su tutte le piattaforme: da YouTube a Instagram.

Proviamo a traslare questo elenco nel mondo dei contenuti e dell’informazione. Il manager che affianca i giornalisti potrebbe essere la figura del publisher o del digital manager. Troppo spesso, nelle redazioni a prendere decisioni di tipo tecnologico o di formato sono gli stessi giornalisti che mancano di una cultura specifica o semplicemente avrebbero bisogno di un confronto corale con tecnici ed esperti di comunicazione: insomma con una visione strategica più ampia. La grafica, e questo è un tasto dolente, è qualcosa che spesso viene relegata all’ultimo posto, soprattutto in ambito giornalistico. Anche se già oggi esistono desk “visual” o digital che lavorano nelle redazioni il salto necessario sarebbe quello di capire che non è corretto pensare per step successivi e smettere di pensare a questa parte come un “confezionamento” per un contenuto preparato altrove. L’ l’impostazione grafica dovrebbe essere completamente integrata e accompagnare un contenuto sin dalla sua nascita. Per chiudere: spesso chi si occupa di produzione video è percepito dalle redazioni come un “professionista” o un esecutore della visione altrui. Ci si dovrebbe invece augurare un lavoro di squadra, per quanto possibile, oppure la nascita di figure ibride di editor che abbiamo rudimenti di videomaking e di videomaker che abbiano capacità di editor .

A proposito di gioco di squadra la competizione nell’ambito editoriale e digital sembra talmente reale e invasiva da essere diventata il filo rosso di film e serie di tv di successo (Succession, Newsroom solo per citarne un paio). Eppure se c’è un mondo ancora più aggressivo e spietato in questo senso è proprio quello musicale e specialmente quello della musica rap. Si parla spesso di “rapgame” per descrivere il concetto di “Get rich or die trying” che permea buona parte di questo genere, una guerra fratricida a chi ha il migliore flow, beat e soprattutto a chi incassa più soldi degli altri. L’aggressività del rapgame non impedisce però ai musicisti che ne fanno parte di collaborare frequentemente tra di loro. Potrebbe sembrare un paradosso: perché continuare ad essere ospiti dei dischi e dei concerti altrui quando l’unica cosa importante è quella di primeggiare? Da qualche parte, nelle maglie dell’evoluzione di questo genere musicale, è filtrata la consapevolezza dell’importanza di fare rete. Questi artisti hanno ben capito,anche se nessuno lo ammetterà apertamente, che l’unico modo di essere davvero i numeri uno è quello di influenzare e farsi influenzare da chi ci è attorno.

Andando nello specifico della scena italiana potremmo pensare alla parabola di Fabri Fibra, da molti indicato come il padre di questa nuova ondata di hip hop italiano di successo, che tuttora continua a prestare le sue rime per moltissimi artisti emergenti, sperimentare produzioni innovative e in generale illuminare con il suo “star power” ciò che gli sembra meritevole. Lo scambio simbolico in questo caso è quello di dare legittimità a chi è appena entrato nella partita e dall'altro ricevere nuova linfa vitale, nuovi stimoli e anche visibilità verso un pubblico diverso (quello dei giovanissimi) che continua a cambiare velocemente. Non è un caso che il rap e la trap siano il genere musicale dominante al momento: questa loro capacità di creare reti diffuse di talenti ha permesso alla musica e al suo pubblico di evolversi rimanendo rilevanti nel corso degli anni e riuscendo anzi ad assorbire molti dei territori limitrofi.

Stesso discorso vale per Machete Crew: il successo del loro ultimo “Machete Mixtape 4” è stato tale da essere abbondantemente discusso nella stampa mainstream. Parliamo di milioni di streaming nel giro di pochissimi giorni per un fenomeno che ha dominato le classifiche nazionali (al momento in cui scriviamo il disco è terzo della classifica FIMI dopo 12 settimane di permanenza, superato solo da altri due dischi trap, quello di Night Skinny e il nuovo di Gemitaiz e Madman). La promozione quasi interamente costruita su Instagram ha funzionato proprio per il fitto reticolo di artisti coinvolti nell'album, un vero “best of the best” della nuova scena trap italiana il cui impatto complessivo è di molto superiore alla semplice somma delle parti. Un’operazione di enorme successo che ha anche illuminato ulteriormente i singoli artisti coinvolti e spinto verso l’alto un “hub” creativo che utilizza il proprio brand per iniziative commerciali complesse di diverso genere: da quelle negli eSport, ai live non convenzionali, ad ovviamente il merchandising.

Proprio il tema del ricambio generazionale è un tasto particolarmente dolente per il mondo editoriale italiano. Da una parte i quotidiani hanno comprensibilmente il terrore di perdere lo zoccolo dei propri lettori del formato cartaceo che però si fanno sempre più anziani. Dall'altra conquistare l’attenzione di chi un quotidiano non lo ha mai letto è una missione quasi impossibile. Stesso discorso per i prodotti televisivi o alcuni specifici generi cinematografici rimasti impermeabili alle mutazioni del linguaggio visivo degli ultimi anni. Non c’è una risposta semplice ma tenendo buono il parallelo fatto fino a questo momento una possibile soluzione potrebbe essere quella di mimare l’effetto network descritto prima. Cosa vorrebbe dire fare squadra per l’industria editoriale nazionale? In Italia, linkare nelle pagine di un sito i propri competitor è un vero e proprio tabù, citarli impensabile perché in qualche modo si riconoscerebbe così la loro esistenza. La verità più difficile da accettare ma più produttiva nel lungo periodo è che nessuno da solo è in grado di vincere questa gara e l’unica speranza è proprio quella di creare una “scena” informativa in cui le singole aziende siano capaci di illuminarsi a vicenda.

Come i dissing e i featuring del rap servono a mettere sulla lavagna i buoni e i cattivi, a formare uno storytelling interno al genere,così anche l’informazione potrebbe accettare questa lezione e decidere di darsi al canottaggio a due, a quattro, a otto. Già succede all'estero dove spesso testate di gruppi editoriali diversi condividono l’un l’altro i contenuti nelle proprie pagine Facebook e Instagram o riconoscono i propri competitor come fonti delle news che riportano o gli attribuiscono le reference dei format che mettono in piedi, anche quando i rivali sono realtà più piccole, marginali e relativamente sconosciute. Alla stessa maniera c’è una ricerca continua verso nuovi prodotti tecnologici da creare o acquisire, che magari posseggono una credibilità già guadagnata verso demografiche diverse e che rendano possibile il ricambio di pubblico di cui tutti hanno disperatamente bisogno.

Non è soltanto questione di netiquette; si tratta invece di creare un legame reciproco che porti acqua al mulino di entrambe le parti. Le enormi fusioni industriali nell'ambito media sono infatti la naturale risposta finanziaria ad un atteggiamento che è già culturale. La collaborazione tra BBC e ITV in Inghilterra per la creazione della BritBox è un segnale in questo senso, suggestione raccolta e rilanciata da Antonio Campo dall’Orto in una recente intervista in cui è arrivato ad immaginare addirittura una collaborazione tra Rai e Mediaset. Potrebbe sembrare fantascienza degna di una nuova serie di Black Mirror ma vivendo in un mondo in cui a predire il futuro sono soprattutto le serie tv (e ogni tanto i Simpson) sarebbe poco prudente eliminare dal reame del possibile gli scenari più selvaggi. Se non altro per aggiungere un po’ di brio ad un agitato e difficile presente.

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Andrea Girolami

Ora Mediaset Digital Content Factory. Prima Wired Italia e MTV http://nonsischerzapiu.com