Spotify ha ragione: la musica è cambiata

Le dichiarazioni del CEO Daniel Ek hanno fatto infuriare i musicisti di tutto il mondo ma si tratta invece di buoni consigli

5 min readAug 17, 2020

--

Tutto parte da un’intervista del CEO di Spotify Daniel Ek con il sito Musically in cui tra molte cose dette un paio di frasi in particolare sollevano un grande polverone: “Alcuni artisti che in passato avevano fatto bene, potrebbero non ottenere gli stessi risultati in futuro. Non sarà possibile registrare musica una volta ogni tre o quattro anni, non possono pensare che basterà” dice Ek che rilancia aggiungendo “Gli artisti che oggi hanno successo si sono resi conto che è fondamentale creare un legame continuo con il proprio pubblico. Si tratta di pubblicare materiale, raccontare una storia attorno all’album e continuare a dialogare con i propri fan”.

Apriti cielo: artisti e professionisti della musica di tutto il mondo si sono indignati postando risposte di fuoco nei propri account social. Tra gli altri David Crosby ha scritto “Sei un’odiosa merda avida, Daniel Ek” e Mike Mills dei R.E.M. ha osato addirittura un “”Musica = prodotto, sfornata regolarmente, dice il miliardario Daniel Ek. Vai a farti fottere”. Questi sono solo due campionamenti di un’infinità di reazioni sullo stesso tono che accusano la piattaforma e il suo fondatore di voler spremere gli artisti per il proprio tornaconto. Anche tanti addetti al settore in Italia hanno sposato questa narrazione piuttosto arrabbiata, di assoluta negazione rispetto alla visione di Spotify sul futuro della musica.

Lo scenario descritto da Daniel Ek non è qualcosa che ci aspetta in un prossimo futuro ma un ecosistema in cui siamo già immersi da diverso tempo. In Italia il meccanismo è particolarmente visibile nel mercato legato alla musica Rap e Trap. Gli artisti appartenenti a questi generi (che non sembrano aver reagito allo stesso modo degli altri alle parole di Ek) già da anni ragionano secondo una “logica di flusso” della propria produzione musicale costruita come una sequela di singole canzoni da pubblicare a distanza ravvicinata piuttosto che con album tra i quali far trascorrere un lungo periodo di tempo. A questi singoli vanno aggiunti tutta una serie di prodotti “ancillari” come mixtape, featuring e side-project che rendono il presidio di ciascun artista sul mercato (e nella mente degli ascoltatori) ancora più forte.

Già nel 2016 quel mattacchione di Kanye West aveva anticipato i tempi proponendo di aggiornare continuamente le canzoni e gli arrangiamenti del suo album “The Life Of Pablo” trattando il suo disco come un software di cui pubblicare continue versioni invece che un’opera d’arte fatta e finita da consegnare ai posteri. Alla stessa maniera nell'industria del fashion Instagram ha prodotto effetti simili a quelli di Spotify per la musica. La moda sta cercando di superare la logica delle singole collezioni legate alle “settimane della moda” immaginando una produzione continua e ininterrotta di abiti e accessori capace di portare avanti una narrazione continua nel tempo. Nell'ambito audiovisivo il passaggio dei più grandi registi e star dal modello dei film in sala alla narrazione seriale è l’ulteriore dimostrazione che ciò che racconta Ek non è una prerogativa della sola musica ma un nuovo modello distributivo e creativo che coinvolge qualunque industria creativa.

Ad aver concettualizzato per primo questo nuovo meccanismo è stato nel 2013 l’artista e curatore Brad Troemel nel saggio “Athletic Aesthetic”. Troemel propone la nuova definizione di “Aesthlete”: “Un produttore culturale che mette da parte la tecnica e gli atteggiamenti meditabondi sostituendoli con l’immediatezza e la produzione rapida”. Troemel fotografa un mondo capovolto: se un tempo bisognava produrre arte per provare ad avere un proprio pubblico oggi in rete le cose sono inverse e avere un pubblico pronto a recepire il nostro prodotto è la conditio sine qua non da cui partire. Questa fanbase potrà esistere però solo se la avremo coltivata nel tempo grazie ad un flusso continuo di attività e produzioni in grado di creare una community capace di supportare il nostro brand personale. Il percorso è quindi più importante del traguardo e il modo migliore di comunicare il nostro lavoro è osservando il quadro d’insieme più che un singolo prodotto o attività.

Da sempre la forma canzone è stata da influenzata dal tipo di supporto su cui veniva fissata. È accaduto con il 33 giri, il 45, la cassetta, l’iPod e così oggi ancora con Spotify. Questo non riguarda solo la struttura del singolo brano (oggi più brevi, con inizi folgoranti, TikTok friendly) ma anche nella loro distribuzione sul mercato. Siamo passati dai singoli, agli album di diversa lunghezza tornando di nuovo ai singoli con il formato MP3 e oggi alle playlist dei servizi streaming. Queste richiedono una produzione continua da parte degli artisti che le vogliono abitare e, possibilmente, dominare. Chi oggi dice di voler boicottare Spotify rischia di ripetere l'errore di altri mercati che davanti all’evoluzione di formati e tecniche distributive hanno preferito voltarsi dall'altra parte. L’editoria e il giornalismo stanno venendo a patti con il passaggio da una pubblicazione giornaliera nei quotidiani al flusso continuo delle piattaforme social e degli aggregatori soltanto oggi. Nel mezzo sono stati persi quasi 20 anni di storia, bruciate infinite quantità di denaro e posti di lavoro. La stessa industria musicale aveva provato a contrastare nuovi formati e formule distributive tentanto -senza riuscire- di demolire il file sharing di Napster e la conseguente diffusione della pirateria. Chi ha invece è riuscito ad annullare questo mercato di contenuti illegale è stato proprio Spotify che ha creato l’unica cosa che la discografia in tanti anni di denunce non era stata in grado di fare: mettere assieme un’alternativa alla pirateria facile da usare e tecnologicamente efficace. Anche in questo caso nel mezzo è trascorso un altro ventennio di inutili sforzi remando contro corrente.

Conviene cavalcare le onde piuttosto che provare a romperle tuffandosi di testa. Nel resto dell’intervista a Daniel Ek, che non ha avuto però la stessa risonanza, il CEO si dimostra consapevole che più la sua piattaforma sarà capace di redistribuire denaro agli artisti e più sarà per questi indispensabile, guadagnando inoltre potere contrattuale nei confronti delle major a cui versa una grande percentuale dei propri ricavi. “L’obiettivo della nostra azienda è quello di rendere sempre più artisti capaci di vivere della propria arte e questo sta emergendo dai numeri che abbiamo. Sempre più artisti stanno avendo un grande successo riuscendo ad avere un impatto e creando un nuovo rapporto con i propri fan”. Nel 2019 l’industria musicale è tornata a un volume di fatturato che aveva toccato nel 2003 all'interno del quale lo streaming conta ormai più del 40% di ciò che le etichette discografiche guadagnano sulla musica registrata. Oltre a cercare di massimizzare questa linea di reddito l’attenzione guadagnata in queste piattaforme basate su un abbondanza di contenuti andrà adoperata per vendere beni legati al proprio brand di cui c’è invece scarsità: concerti (Covid permettendo), libri, licensing, merchandising e chi più ne ha più ne metta. Non un’impresa facile ma probabilmente la migliore che c’è al momento.

--

--